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LA TAVERNA DEL CERVO



Torino 21/12/2012

 

Può darsi, caro lettore, sarai tentato di credere che le cose raccontate in questo libro , a proposito della stanza della palingenesi, siano solo frutto della mia fantasia.
Niente può essere più lontano dalla verità.
Quello che mi accingo a raccontarti è la storia di Vincenzo Valsesia e della sua intuizione.
Sono sicuro che il lettore attento saprà coglierne il valore.

 


Marco Cravera

 

I protoni solari con energia superiore ai 30 MeV sono particolarmente pericolosi. Nel mese di ottobre del 1989, il Sole produsse particelle tanto energetiche da poter causare la morte di un astronauta che si fosse trovato sulla Luna con la sola protezione della tuta spaziale.

 

I

 


Settimo Torinese-14/04/1903

“Sono sempre gli stessi… La sera arrivano in gruppi di tre, quattro, cinque… Ridono, si danno pacche sulle spalle, hanno lo stesso modo di vestirsi, di muoversi, di parlare.
Ordinano una birra, di quelle forti, e parlano sempre delle ragazze.
Sono vent’anni che vengo in questa taverna; ma loro, ogni sera, come se fosse sempre la stessa stramaledettissima sera, aprono quella porta… Entrano… Eh…
Sono sempre gli stessi!”

Questa fu una delle prime confidenze che mi fece Vincenzo Valsesia, l’uomo più straordinario che abbia mai conosciuto. “Nei discorsi della gente si sente sempre la paura; la paura dei vincoli che loro stessi si sono costruiti, si rinchiudono in prigioni.” Così diceva: si rinchiudono in prigioni. Mi chiamo Marco, e all’epoca della storia che vi sto raccontando avevo circa quindici anni. Lo avevo sempre visto, fin dal giorno in cui fui assunto alla taverna del cervo, seduto nell’angolo in fondo al locale, dove la luce creava un cono d’ombra.
Vincenzo Valsesia, che Oreste Ferrero, il mio capo nonché proprietario della taverna, chiamava rispettosamente -Il signore- possedeva uno sguardo particolare, uno sguardo che lasciava intuire dei segreti.
C’era qualcosa di singolare in quell’uomo: aveva spesso un atteggiamento rilassato, tranquillo, direi quasi sereno, come un cane che sonnecchia nella sua cuccia.
Altre volte invece era nervoso, agitato, si scolava numerose pinte di birra, una dietro l’altra, alternate ad altrettante puntate al cesso.
Lui c’era sempre. Alcune sere da solo, molte altre in compagnia. Lo strano era che il più delle volte le persone si avvicinavano al “suo” tavolo, scambiavano qualche parola e dopo lui li invitava a sedere; e non erano mai quattro chiacchiere. In quelle occasioni le discussioni potevano durare ore, anche fino alla chiusura. Non si potevano nemmeno definire proprio discussioni: sbirciando dalla cucina mi accorgevo che gli altri parlavano, mentre lui si limitava ad annuire o a sorseggiare la sua birra, o almeno così mi sembrava finché un giorno, in un momento di pausa, non mi sedetti anch’io al suo tavolo.
“Vuole che le porti un’altra pinta, signore?”
“No grazie, va bene così.”
“Posso sedermi signore? Ho qualche momento di pausa.”
Valsesia alzò lo sguardo con espressione stupita, poi sorrise, smentendo l’imperturbabile serietà dell’espressione che gli avevo sempre visto.
“Certo che puoi sederti, come ti chiami ragazzo?”
“Marco, Marco Cravera.”
Rimasi per qualche momento a guardarlo, aveva i capelli inumiditi e pettinati all’indietro, stempiato, occhiali rotondi, baffi e pizzetto curati, un’espressione benevola di quelle che mettono subito a proprio agio. Sul tavolo c’era un libro che avevo già notato in altre occasioni.
“Ho visto che spesso leggete quel libro, di che cosa parla?” domandai.
Lo vidi annuire lentamente. Prese il libro, lo sfogliò velocemente facendolo cantare, ne annusò le pagine, poi disse:
“Sono poesie.”
“Poesie?! Ma sono cose da donnette…”
Aveva preso dal taschino un sigaro, e dopo aver bevuto un sorso di birra si era messo a leccarlo. “Ne migliora l’aroma” disse, addentandone un’estremità e sputandone il superfluo a terra; mi osservava da sopra gli occhiali con la montatura che poggiava storta sul naso. Si grattò il pizzetto, poi si rivolse nuovamente a me:
“È questo che pensi?” chiese.
“Sì, insomma… Cuore, fiore, amore, cose del genere, no?”
“No”, disse togliendosi gli occhiali. Li appoggiò sul tavolo con un movimento accurato. Infilò una mano in tasca e ne estrasse un fiammifero, accese il sigaro con rumorose aspirazioni e soffiò sulla fiamma rimanendo a guardarmi attraverso il fumo che si sprigionava da esso.
Dio santo, io a teatro non c’ero mai stato, ma quello lì si muoveva proprio come immaginavo dovessero muoversi gli attori su un palcoscenico; o erano gli attori che copiavano dagli uomini come lui? Era diverso dagli altri… Non c’erano santi, era diverso.
“Quando dico poeta non parlo di quegli individui, distanti, annoiati, con gli occhi languidi… Parlo di uomini valorosi, a volte un po’ smargiassi e puttanieri, svelti di mente e di lingua come di spada! Famosi a Corte per i bei versi e per i duelli, e che non disdegnano qualche notte in prigione, pur di denunciare con sonetti e strofe anche i re e gli uomini potenti.” Dopo un attimo di riflessione, aggiunse:
“In quanto alle donnette… Posso citarti quello che mi scrisse una mia cara amica a proposito della poesia: “Se leggo un libro e tutto il mio corpo diventa così freddo che nessun fuoco può scaldarlo, so che è poesia. Se mi sento, materialmente, come se mi avessero levato la calotta cranica, so che è poesia. Per me sono gli unici modi di riconoscerla. Ce ne sono altri?”
Bisognava stare attenti per raccapezzarsi, non avevo capito proprio tutto, ma il senso sì… Ero stato un minchione a uscirmene con “ roba da donnette.”
Notò che iniziavo ad agitarmi sulla panca come se stesse prendendo fuoco.
“Che ti frega… Se una cosa piace a me non è detto che debba piacere agli altri… A proposito, qual è il tuo segreto?”
Oh Cristo! A proposito di che? Cominciavo a credere che non fosse stata una buona trovata iniziare a parlare con quell’uomo; dopo tutto, uno che viene tutte le sere, alla stessa ora, per vent’anni, proprio a posto non deve essere. Una persona a modo, alla sua età, dovrebbe avere una famiglia, un lavoro… Non ha tutto quel tempo da passare in una fottutissima taverna!
“Ehm… Segreto? Che segreto? Io non ho nessun segreto…E poi ora devo riprendere il lavoro, signore.” Cominciavo ad averne le palle piene, di quella situazione.
“Aspetta… Oreste ti ha chiamato? No, non ti ha chiamato; e sai perché? Perché stai parlando con me. Si vede che gli sei simpatico.”
Non me ne ero accorto, ma effettivamente da quando mi ero seduto a parlare con il signor Valsesia, Oreste non mi aveva più chiamato, come faceva di solito, ogni due minuti. Ma cos’era una congiura? Non è che stavo finendo nelle mani di un finocchio?
Nel frattempo il Valsesia, tranquillo, con quell’aria da attore consumato diede un paio di boccate al sigaro riempiendo quell’angolo del locale di un fumo azzurrognolo: “Non mi interessa sapere se hai scopato o sei ancora vergine, intendo sapere qual è quella cosa che hai imparato e che riesci a sfruttare sempre a tuo vantaggio… Che ne so, un sorriso particolare, una frase ben riuscita, un determinato atteggiamento… Capisci?”
“Non sono ancora vergine!”, dissi contrariato. Invece lo ero, anche se avevo già messo gli occhi su un paio di ragazze. Ci voleva proprio un gran cervello a capire tutti i suoi ragionamenti, però la cosa mi piaceva, non mi parlava come se fossi un ragazzino, mi parlava come fossi un uomo fatto e finito… Un uomo.
“Bisogna sceglierne uno” dissi.
“Bisogna sceglierne uno? Che vuol dire?” incalzò il Valsesia.
“Per fare in modo che non scelgano te; devi subito trovare uno che sia più debole, che subisca gli scherzi, che abbia qualcosa di diverso… Uno da incolpare e prendere in giro… Se no, magari, scelgono te.”
Vincenzo Valsesia era rimasto in silenzio, immobile. Aveva un’espressione corrucciata, e negli occhi una luce singolare… Mi stava ascoltando! E si capiva chiaramente che gli interessava quel che dicevo… Santa madonna, avevo sempre creduto che uno per ascoltare dovesse usare le orecchie. E invece no… Lui era capace di ascoltarti in un altro modo… Non ci capivo un accidente, mi ascoltava… Con gli occhi, lo so è assurdo, ma era così.
“È questo che volevate sapere?” mormorai.
“Sì è questo che volevo sapere… Però dal tono che hai usato, mi pare, che tu non sia contento della cosa.”
“No, non è giusto… Ma è sempre stato così, in strada, a scuola, anche qui al lavoro… E a tutti gli altri non importa un fico secco! L’importante è che “quelli” non siano loro.”
“Bravo Marco”, disse sorridendo e sbattendo la mano sul tavolo. “Ho una gran sete, portami da bere!”
Mi sembrava di aver fatto una gran bella figura con la faccenda che gli avevo raccontato, non era stato facile, ma alla fine gli avevo dimostrato che ero uno con le palle, o almeno, così mi era sembrato. Avevamo fatto proprio una bella chiacchierata. Solo più tardi ripensai che se qualcuno ci avesse osservato in quel momento, avrebbe visto me che blateravo, e il signor Valsesia intento a fumare, annuire, e sorseggiare la sua birra.


***


Mi capita spesso di tornare con rimpianto a quel periodo: la mescita delle birre, gli sguardi furtivi di Silvia, il mio primo sigaro, gli amici, le partite a carte e le risate… E se ci ripenso, sono sicuro che non ci metterei un minuto a tornare a quei momenti, se solo fosse possibile, già… Ormai non esiste più la taverna del cervo, né Oreste Ferrero, né Giulia Concilio… ma vediamo di raccontare ogni cosa nel suo giusto tempo.
La taverna del cervo era situata all’angolo fra Via Italia e la piazza della parrocchia San Pietro in vincoli, a Settimo Torinese. Era una taverna come tante altre, si beveva, si mangiava e si passava il tempo. Sopra la taverna c’erano due camere che ogni tanto erano affittate a gente di passaggio.
Nel locale c’era un bellissimo bancone, di legno massiccio, tutto lucidato a specchio con un parapiede d’ottone e tavoli e panche dello stesso stile. Oreste Ferrero ci faceva una gran bella figura dietro il suo bancone. Lui era uno di quelli che, quando passava, la gente si girava a guardarlo esclamando “è un armadio!” Dico, avete presente un gigante con due braccia grosse così? Ecco, lui di più: portava sempre dei pantaloni scuri, degli stivaloni neri e una camicia che sembrava sempre troppo stretta. Il viso quadrato, il capo calvo, un orecchino all’orecchio destro; e per quanto magari si fosse appena rasato, aveva sempre un’ombra scura sulle guance. Certo a vederlo così, nessuno si sarebbe avvicinato, ma bastava osservarlo un po’ per capire subito ch’era una pasta d’uomo. Era premuroso e sorridente, e non era raro sentirlo intonare arie con voce bassa e melodiosa. Ora, non dico fosse uno stinco di santo, anche perché in alcune occasioni avevo visto trasformare il suo volto sorridente e bonario in un'espressione profonda e risoluta che faceva intravedere un passato temerario, ma comunque era un gran lavoratore.
Uno s’immagina, che uno così, debba avere per moglie una puledra puro sangue, una donna di razza… Macché, era sposato con Giulia Concilio, un tipettino altezzoso dal collo lungo e dai modi sdegnosi… E di lei, non mi viene in mente altro.
In cucina lavorava Maria… Ah sì, Loproto mi pare, che noi tutti, gentilmente chiamavamo “Maria la grossa.” Devo dire che era una brava cuoca, cucinava ottime pietanze e manicaretti da leccarsi i baffi. Aveva due figli: Silvia; graziosa, bruna con grandi occhi neri, profondi, melanconici, il profilo perfetto, flessuosa nelle movenze e modestissima nei modi. Ad ogni modo, nonostante l’aspetto semplice, la trovavo molto carina… E lei se n’era accorta.
L’altro figlio, Mario, aveva un paio d’anni in meno di me, ma tutti ci scambiavano per fratelli, tutti e due magri, capelli lunghi, con il fuoco nelle vene, ed occhi neri come la notte. Quando eravamo insieme ne combinavamo di tutti i colori, una volta c’eravamo anche ubriacati con una bottiglia di grappa fregata ad Oreste… Sant’Iddio, quante strigliate ci siamo presi. E Maria la grossa, col figlio, ci andava giù pesante col matterello: però con Mario non c’era verso di togliergli quel sorrisetto stampato sulla faccia, rideva anche mentre scappava e le prendeva; non c’era verso, mai.
Qualche giorno dopo la mia chiacchierata con il signor Valsesia, mentre stavo rassettando le bottiglie di liquori sotto il bancone, sentii la voce di Oreste che proveniva dalla cantina. Stava cantando una di quelle canzonette che piacevano tanto a Giulia Concilio. Lei quando lo sentiva s’inalberava, alzava il mento, e si allontanava spazientita.

“Un bel giorno un italiano
nell’harem penetrò
e in barba del Sultano
tutte quante le assediò.
‘Del gran Bosforo gelose
-ei disse- ben vi so, ma per l’onore
dell’Italia io vi conquisterò!”

Capirete che io e Mario ci andavamo matti per quelle canzonette, ci sbellicavamo dalle risate, e Oreste non perdeva occasione per deliziarci rima dopo rima. Ne inventava una dietro l’altra, e a suo modo era un gran poeta pure lui; anche per questo, forse, era tanto amico del signor Valsesia.
Decisi di scendere in cantina per vedere se aveva bisogno di una mano, nel frattempo il motivetto era cambiato:

“Si fa…
ma non si dice!
E chi l’ha fatto tace,
lo nega fa il mendace
e non vi dice mai la verità…”


***


“Oreste, avete bisogno di una mano?” Quando mi aveva assunto, dopo due mesi di prova, aveva motivato la decisione dicendomi che mi prestavo sempre, e che avevo dimostrato di saperci fare.
“Oh Marcooo! Vieni quaaa! Aiutami a travasar questo vinellooo…” disse, continuando allegramente a canticchiare.
Lui aspirava con un tubo da una grossa damigiana, poi versava il liquido nelle bottiglie. Io prendevo i tappi di sughero, li appoggiavo sulla bocca della bottiglia e poi gli davo delle gran manate sopra.

“Ha detto che sei un ragazzo…Come ha detto? Ah… sì… ha detto che sei un ragazzo perspicace, o una cosa del genere… Praticamente dice che hai sale in zucca!”
Non serviva che specificasse a chi si riferiva, siccome ero un ragazzo “perspicace”, avevo capito subito di chi stava parlando.
“Voi lo conoscete da molto il signor Valsesia?”
“Praticamente da quando ho aperto la taverna.”
“Ed è vera quella storia che è da vent’anni che viene qua?”
“È vera, tutte le sere… A parte qualche eccezione.”
“Ma chi è? Cosa fa? Mi sembra una di quelle persone con una testa così… Ma è anche un po’ stravagante, e fa delle domande strane.”
“Tipo, qual è il tuo segreto?” disse Oreste, guardandomi di traverso.
“Cristo santo! Sì, proprio quella… Ma allora la fa a tutti?!”
“E ti pare una domanda stramba? Pensaci bene, è un bel furbacchione, lui se ne sta lì, tranquillo tranquillo, e nel frattempo fa tesoro dell’esperienza altrui… Sai, ho visto che le risposte più interessanti se le segna su quel libro di poesie che si porta sempre dietro.”
“Mah, non lo so… Perché non se le fa da sé le sue esperienze? Magari è un po’ codardo, e magari poi si diverte a raccontare i fatti degli uni e degli altri” dissi di proposito, cercando di far parlare Oreste.
“Porco demonio! Marco! Stai parlando di un amico!” sbraitò, versando il vino per terra. Si alzò imprecando sottovoce, ma violentemente, contro la bottiglia che gli era sfuggita di mano. Io continuavo a tappare, a testa bassa, allineando tutte le bottiglie per benino.
“Tutti si siedono al suo tavolo da vent’anni, e tutti gli raccontano i loro problemi, eppure ti posso garantire che non ho mai sentito che dalla sua bocca sia uscito una sola lettera di quello che gli è stato riferito! A te, tutto sommato, piace il signor Valsesia vero? Ti piacerebbe essere risoluto come lui! Bene è ora d’imparare ad essere così, ti svelerò un segreto, che non dovrai mai… E dico mai, rivelare.”
Guardò che sulla scala che portava alla cantina non ci fosse nessuno. Chiuse la porta, e dopo aver lanciato un getto di saliva, lungo e preciso in un catino, mi fissò con uno di quei suoi sguardi seri.
“Un paio di anni fa, a San Mauro, un paese qui vicino, dei balordi hanno rapinato Domenico Petacco: era un brav’uomo e io lo conoscevo perché mi aveva dato qualche consiglio quando avevo deciso di acquistare la taverna, erano anni che lui ne gestiva una, e ormai si era quasi deciso a mettersi a riposo. Quei degenerati non solo gli hanno rubato tutto l’incasso, ma si sono voluti divertire anche con la nuora, e quando lui con le poche forze della disperazione ha opposto resistenza, si è ritrovato con un palmo di acciaio nella pancia. E questo non fu che l’inizio, ogni volta che facevano una rapina ci scappava il morto, si divertivano ’sti farabutti… capisci?”
“’Sti farabutti…” ripetei imbambolato.
“Com’è vero Iddio, se fossero entrati nella mia taverna, me ne sarei portati all’inferno quanti più potevo: questo pensavo in quei giorni; e una sera…”
“Oh Madonna, sono venuti!” esclamai.
“Sì, entrarono spavaldi qualche minuto prima della chiusura, erano in quattro a viso scoperto e con in mano lunghi coltelli. Ero lì, intento a fare due conti, all’inizio gli affari non è che girassero un gran ché bene; comunque, questi entrano e iniziano a urlare di dargli i soldi. Quando sentirono le urla, Maria e sua figlia uscirono dalla cucina, io gli gridai di stare dentro, e che era tutto a posto. Fu in quel momento che vidi Vincenzo Valsesia che strisciava contro il muro cercando di sgattaiolare via verso l’uscita, non mi ero accorto che fosse ancora nel locale.”
“Stava scappando?!” dissi incredulo.
“Così sembrava, ma mi era parso strano conoscendolo; capii che stava cercando di aggirarli, per recuperare il suo bastone da passeggio lasciato vicino alla porta.”
“Il suo bastone?”
“Sì, è un bastone particolare il suo, dentro nasconde un'anima d’acciaio, una lama lunga un metro. Fingeva di essere spaventato e implorava di uscire, dato che lui non c'entrava niente con quella faccenda; lo spinsero in un angolo e gli dissero:
“Adesso squartiamo questo bue, e poi ci divertiremo anche con te.”
Avevo afferrato l’accetta che tenevo sotto il bancone, e nel frattempo vedevo il Valsesia che si stava avvicinando alla porta dell’uscita.
“Diavolo, che situazione…” mormorai.
“Ma fu proprio in quel momento che successe la cosa più straordinaria… Crangr, crangr, crangr… Tre mandate della chiave nella serratura! Vincenzo Valsesia aveva chiuso la porta a chiave, mettendosele in tasca, togliendo così ogni via di fuga a quei balordi. Estrasse la lama dal bastone che aveva recuperato, e uno di quelli gli si avventò contro con il coltello, ma la parata fu immediata e la risposta mortale. Il tizio cadde in ginocchio, colpito da un micidiale colpo al fegato. Dalla bocca gli usciva sangue nero. Per un attimo vidi il terrore negli occhi degli altri; da cacciatori si erano trasformati in prede.”
“E poi?”dissi con un fil di voce.
Oreste Ferrero sorrise soddisfatto: “E poi… Hai visto che belle rose abbiamo nel giardino… e che bella terra grassa! Vedi, il buon Dio ha disposto che anche le nullità possano tornare utili al creato…Proprio delle belle rose.”
Ero pietrificato, e nello stesso tempo esaltato.
“Forza Marco, finisci d'imbottigliare e dai una sistemata alla cantina.” Aprì la porta, e dopo avermi strizzato l’occhio -sembrava gli fosse tornato il buon umore- iniziò a salire le scale intonando un’altra canzonetta.

“Se non ci conoscete,
guardateci nel viso:
si viene dall’inferno
e vi si manda in Paradiso…”





II

 


Nei giorni successivi mi capitò spesso di ripensare a quella faccenda; in ogni modo, non mi vergogno a dirlo, quelle belle rose cominciarono a darmi i brividi. Anche il loro profumo non era più lo stesso: ora quando passavo da lì mi capitava di trattenere il fiato, per non sentirne l’odore; per quanto mi ricordi non le toccai mai più.
Per qualche giorno cercai di evitare il signor Valsesia, lo salutavo e gli facevo dei gran sorrisi. Mi convincevo che quei brutti ceffi, si erano meritati quella fine: dopotutto se l’erano cercata, Oreste e il signor Valsesia avevano difeso le proprie vite e probabilmente anche quella di Maria e la figlia, senza pensare a quello che quei balordi avrebbero ancora potuto fare. Hai un bel pensare, ma prima o poi, ne puoi stare certo, mentre sei lì che parli e sembra sia passato tutto, ti arriva quel pensiero dritto nella testa: ’sti due hanno fatto una carneficina.
“Signor Valsesia, stasera c’è poca gente, le va di fare quattro chiacchiere?” dissi sedendomi al suo tavolo.
Lui sembrava non aver sentito, era chino su un foglio e stava scrivendo qualcosa velocemente.
“Signor Valsesia?” ripetei.
“Marco! Finalmente, aspetta un attimo” disse senza smettere di scrivere, pronunciando ad alta voce le ultime parole del suo scritto.
“…l’origine della pace è avere un cuore che comprenda il dolore dell’altro.”
“Bella questa frase, è vostra?”dissi sollevato da una frase così nobile.
“Certo che è mia, ci mancherebbe”, rispose un po' seccato.
“Posso farvi una domanda?”
Il Valsesia sorrise controvoglia, e iniziò a lisciarsi i baffi. Fece schioccare le dita come se gli fosse venuto in mente qualcosa, poi gridò verso il bancone: “Oreste!”
Scattai in piedi come una molla: Cristo santo! Non avevo fatto niente.
“Stai tranquillo, siediti, si chiacchiera meglio se non si ha la gola secca. E niente è meglio della grappa per sciacquar via la polvere della strada. Mi hanno detto che ti piace, neh?”
Oreste si avvicinò col suo passo lento e trascinato.
“Signor Ferrero, ci vuol portare una bottiglia di grappa e due bicchieri per me e il mio ospite?” disse il Valsesia con tono altisonante.
“Certamente… le vostre signorie gradiscono anche la tabacchiera di macuba?” rispose Oreste nello stesso tono.
“Sì, ma che sia di buona qualità”, concluse il Valsesia.
Oreste se ne andò dopo aver accennato un inchino.
“Potevo andarci io a prendere la grappa!”mormorai fra i denti infastidito. “E poi che diavolo è 'sto macuba?!”
“Dai rilassati, dicevamo? Ah… qual era la domanda?”
“Volevo sapere… sì insomma, siccome avete molto tempo libero, cioè non è che sia male, però…”
“Vuoi sapere qual è il mio lavoro?” chiese, togliendomi dall’impaccio.
“Sì.”
Prese il foglio che c’era sul tavolo, gli diede un'occhiata, e poi lo girò nella mia direzione.
“Devo leggerlo?” dissi senza capire dove volesse andare a parare.
Gli diedi una sbirciata veloce. Ora, non è che io fossi uno di quelli che legge tutti i giorni, insomma, la gazzetta del paese ogni tanto la leggevo. Addirittura, qualche volta, quando non c’era Giulia Concilio, mi era capitato anche di scrivere il menù del giorno. L’unico mio cruccio erano quelle parole, che non si capisce il perché, dovevano avere due lettere uguali una vicina all’altra. Ricordo che in uno dei miei primi giorni di scuola la signorina D’agnano ci chiese come si scriveva la parola mamma. Io fui il primo a rispondere: “Con due emme…”. Non avevo finito la mia frase che lei subito mi fece i complimenti. “Bene, scrivetelo sul vostro quadernetto” disse. Io, tutto contento, in bella calligrafia scrissi quella bellissima parola. La maestra iniziò a passare dietro i banchi per controllare che tutti avessero scritto correttamente, quando arrivò dietro di me, guardò quello che avevo scritto e fece partire uno scappellotto che mi rintronò per due minuti. Non avevo il coraggio di rialzare la testa, che figura, e poi così, davanti a tutti, ma cos’era successo?
“Ma come? Hai detto con due emme e poi la scrivi con una?” disse esasperata.
“Mi scusi signorina” dissi un po’ impaurito  presentendo un altro scappellotto “Ma guardi che ci sono due emme…e due a .” Non vi dico che faccia ha fatto, mi guardava come se avessi bestemmiato tutti i santi e le madonne. Prese il mio bel quadernetto, nuovo nuovo, e sfilandosi la matita da sopra l’orecchio, scrisse calcando la mano, e strappando così il foglio, la parola MAMMA. Io la guardai, e con aria di sfida gli dissi: “Ma così ce ne sono tre!” Avevo ragione, no? Niente da dire. Infatti, non disse niente e si andò a sedere, continuando a guardarmi e a scuotere la testa… a pensarci adesso non credo che la signorina D’agnano pensasse che sarei diventato un ragazzo… come aveva detto il Valsesia, ah, sì… un ragazzo perspicace.
“Allora? Ti sei incantato?” disse il Valsesia.
“Scusi, mi era venuta in mente una cosa.”
“Cosa?”
Gli raccontai la faccenda della signorina D’agnano, e anche lui iniziò a guardarmi con uno strano sorrisetto e a scuotere la testa. Ripresi il foglio che mi aveva dato e provai a leggere qualche frase.
“…in avvenire avremo delle grandi opere narrative e non saranno quelle che la gente pensa di volere o quelle desiderate dai grandi critici. Saranno romanzi del tipo che interessano al romanziere. E i romanzi che interessano il romanziere sono quelli che ancora non sono stati scritti. Quelli che pretendono il meglio da lui, che esigono che operi al massimo della sua intelligenza e del suo talento…”
“Lei è uno scrittore? Un romanziere?” dissi guardando il Valsesia che nel frattempo stava sistemando alcuni fogli, piegandoli e mettendoli tra le pagine del suo libro.
“Sì, sono un romanziere” rispose distrattamente.
“E questa roba del romanzo che non è stato ancora scritto; l’ha scritto lei?”
“L’ho scritto io, sì… ma perché tanti dubbi?”
“Cristo santo, ma lei non parla così, proprio per niente” lo guardai con aria confusa e incredula.
Sentii sbattere la bottiglia di grappa sul tavolo, e i bicchieri furono scaraventati direttamente sotto il mio naso.
“Grrrrappa di pura vinaccia doppia rettificata! Biiicchieri di cristallo finissimo! E un ooottimo tabacco da fiuto! Solo il meglio del meglio alla taverna del cervo!” declamò Oreste.
Sarà stato anche il meglio del meglio, ma il servizio faceva pietà, pensai.
Il Valsesia versava la grappa allontanando man mano la bottiglia dai bicchieri creando così un piacevole effetto sonoro. Ne versò una dose generosa… troppo generosa.
“Alla tua” disse alzando il bicchiere. Io lo imitai. Mandammo giù entrambi una buona sorsata; lui rimase impassibile, mentre io ero scosso da brividi e strizzavo gli occhi in continuazione. Diavolo, era fuoco liquido!
“Allora dicevi?” proseguì il Valsesia come se non si fosse accorto che stavo letteralmente andando a fuoco. Mi schiarii la gola, ma mi venne fuori comunque una voce in falsetto:
“Dicevo” tossii, “Dicevo, che voi non parlate in quel modo.”
“Se uno scrive come parla, anche se parla benissimo, scrive male” sentenziò.
Devo dire la verità, rimasi un po’ deluso, adesso che sapevo cosa faceva non mi sembrava più così interessante, chissà che mi credevo. M’immaginavo che avesse ereditato una fortuna, o che magari dopo un passato ardimentoso, si fosse ritirato per sfuggire a dei compari a cui magari aveva tirato un brutto tiro… o una cosa su per giù, insomma. Invece, faceva lo scrittore.
“E cosa scrive?” domandai, mentre il Valsesia apriva la tabacchiera e si appoggiava una presa di tabacco fra il pollice e l’indice della mano sinistra. Avvicinò la mano al naso e tappandosi la narice destra, aspirò tutto in un istante. Rimase un attimo con la testa sollevata, continuando a tirar su con vigorose aspirazioni e prorompendo con numerosi “ ahhh…aahhhh” come se apprezzasse molto la cosa.
“Ne vuoi un po’?” disse, porgendomi la tabacchiera.
Annusai. Aveva un buon odore. Un odore caratteristico ma comunque familiare.
“ Che cos’è?” chiesi.
“Si chiama macuba, e proviene dalle isole della Martinica, è chiamato anche macubino ed è in sostanza del tabacco fermentato profumato con essenze di geranio. Bastano un paio di prese e puoi stare su tutta la notte.”
Ne presi un pizzico e me lo infilai direttamente dentro il naso.
“Se non tiri su non succede nulla” disse, come se stesse aspettando qualcosa.
Tirai su. Si lo so cosa pensate, se foste stato al posto mio non l’avreste fatto, ma purtroppo a quell’età si vuole imitare tutto quello che fanno i “grandi.”
Mi ritrovai un grumo direttamente in gola, e iniziai a tossire come un disperato. Quando mi ripresi avevo gli occhi pieni di lacrime, e la gola in fiamme.
“Forse ne hai messo troppo” disse impassibile, porgendomi il bicchiere di grappa.
Ripensai al mio discorsetto del bisogna scegliere uno. Cristo santo! Ma non è che quei due avevano scelto me da prendere in mezzo? Mi ricredetti in seguito quando incominciai a sentire i piacevoli effetti della grappa e del macuba. Era una meraviglia, niente da dire… una meraviglia.
“Allora”, dissi come se non fosse successo nulla. “Che cosa scrive?”
Il Valsesia fece istintivamente un accenno di sorriso, e assunse un’espressione distante e preoccupata.
“Scrivo delle persone, della gente… scrivo dell’umanità. Lo so, è una materia vasta, ma non ci vuole molto. Alla maggior parte della gente piace leggere dei propri simili, soprattutto quando riguarda le sventure che capitano a qualcun altro.”
“Ed è quello che vuole scrivere?” dissi, sentendomi come se stessi galleggiando.
“No, purtroppo se voglio vivere devo scrivere quello che la gente vuole. Ma prima o poi lo scriverò, realizzerò un'opera narrativa dove rivelerò un segreto antico.
Il romanzo che non è ancora stato scritto… Il romanzo di un domani diverso.”
Vi devo dire la verità, dopo quelle parole, tutto si confuse nella nebbia, mi ricordo solo qualche immagine sfocata. La latrina a qualche spanna dalla faccia e io che vomitavo. Oreste che mi prendeva come un sacco di patate e mi sdraiava sul letto della camera di sopra. Ora, può anche essere che me lo sia sognato, ma mi sembrò che Oreste dopo aver sistemato la coperta, mi aggiustò i capelli e mi diede una carezza sulla fronte.

 


III

 


Era capitato spesso, che se si faceva troppo tardi, Oreste mi faceva dormire alla taverna. Quindi mia zia Bettina non si preoccupava più di tanto, se la notte non rientravo.
Zia Bettina era la sorella minore di mia madre: purtroppo per lei, era rimasta vedova troppo presto, ma il marito le aveva lasciato abbastanza per trascorrere il resto della vita in modo decoroso. Lei abitava a Settimo, appunto, che distava una ventina di chilometri da Moncalieri dove abitavamo noi. Aveva detto ai miei genitori che una sua amica -che poi avrei scoperto essere quella santa donna di Giulia  Concilio- stava cercando un aiuto per la taverna del marito. Suggerì che io potevo lavorare alla taverna e che inoltre, le avrei fatto compagnia. Mia madre era sembrata un po’ indecisa, mentre a mio padre non era parsa vera una proposta così interessante.
Devo dire che lui lavorava dalla mattina alla sera nei campi, e mantenere cinque figli -sì avevo quattro sorelle più piccole- e una moglie, non era una cosa facile a quei tempi. E così, lo stesso giorno mi lasciarono da zia Bettina, e lei il giorno dopo mi accompagnò alla taverna del cervo, lasciandomi in balia di quella donna dai modi altezzosi e sprezzanti. Sarei scappato la sera stessa, se dopo l’ennesima lavata di capo -“Ma no! Ma no… Ah, mio Dio! Ma allora sei un testone, ti ho già detto che prima di spazzare devi bagnare il pavimento”- non mi avesse chiamato Oreste in cucina per una merenda a base di salame, pane bianco, e vino rosso.
Quando la Concilio, dopo un po’ che parlavo con Oreste, entrò in cucina dicendomi che c’erano le faccende da sbrigare, Oreste la fulminò con uno sguardo, lasciandola di sasso. Lei fece finta di niente, ma come al solito, sollevò il mento e impettita se ne andò. Da quel primo giorno non mi disse più nulla, affidando al marito il mio praticantato.
Ora, non so come spiegarvelo, ma fra me e la zia si stabilì un rapporto insolito.
A me piaceva, aveva trentacinque, trentasei anni, una bellezza matura e tuttavia radiosa; grandi occhi castani, e nei punti giusti le forme piene e rotonde. A volte capitava che quando preparava qualche dolce e amalgamava la farina, piegandosi sull’impasto… beh, lasciamo perdere. Lei dal canto suo, ogni tanto mi abbracciava forte, e dopo aver spostato i capelli dalla fronte mi fissava dicendomi: “Che begli occhi neri hai, e come sei bello. Fra qualche anno diventerai proprio un bell’uomo.”
Rimase per sempre il nostro piccolo segreto, ci piacevamo, e questo bastava per renderci felici.
La vita alla taverna scorreva sempre uguale; c’era Vincenzo Valsesia, che ormai come Oreste mi aveva preso sotto la sua ala protettrice, e c’erano tutti gli altri clienti abituali della taverna. Da qualche tempo, grazie ad una trovata di Giulia Concilio, la taverna era frequentata da donne e ragazze. Si era inventata un angolo dove si servivano il tè e infusi vari, accompagnati da torte e pasticcini.
Oreste dapprima non fu d’accordo, ma dovette ricredersi nel momento in cui non solo vide incrementare gli affari con l’iniziativa della moglie, ma soprattutto quando si rese conto dell’aumento degli avventori di sesso maschile.
Inizialmente il tipo di clientela era ben separata e frequentava il locale in momenti diversi della giornata. Le donne venivano nel pomeriggio verso le cinque, mentre gli uomini arrivavano verso le otto; ma questo durò per poco, poiché, non si sa come, non si sa perché, le donne cominciarono ad andare via sempre più tardi e gli uomini invece ad arrivare sempre più presto. Le sei e mezzo era l’ora culmine in cui gli uomini si davano arie di gran signori, con i loro bicchieri panciuti di brandy in mano; mentre le donne giocavano a snobbare chiunque, smentendosi subito con accentuate risate e sguardi provocanti. Fortunatamente per me, quella situazione fu un modo per guadagnare qualche moneta in più con le mance. Gli uomini fra una grappa, un brandy, e una birra, mi consegnavano qualche bigliettino da dare ad una o all’altra.
Bisognava fare attenzione a non farsi pizzicare dalla Concilio, ma diventai piuttosto svelto a schivare ogni sua occhiata. Certo, svelto ero svelto, ma non abbastanza da sfuggire allo sguardo attento del signor Valsesia.
Pretese, per il suo silenzio, che gli andassi a riferire cosa c’era scritto sui biglietti, “Per puro interesse professionale” aveva detto, e in effetti era vero, poiché non gli interessava sapere né chi lo mandava né chi lo riceveva.
Dopo che mi davano il bigliettino non lo consegnavo subito, lo mettevo in tasca e quando ero fuori dalla visuale dell’interessato, leggevo il messaggio fissandolo nella mente.
“Vedo che non ti sono indifferente, perché t’imbarazzi, e penso che provi un amore per me” riferii al Valsesia, cercando di trattenere la risata.
“Dilettanti…” disse lui. Prese un pezzo di carta e scrisse un bigliettino.
“È questo che doveva scriverle”, disse il Valsesia porgendomelo.
-Non arrosir quando ti guardo, ma ferma il tuo cuore che trema per me.-
Non so voi, ma a me quella frase piacque moltissimo, altro che “non ti sono indifferente… e provi un amore per me.” Quella frase mi rigirò in testa per tutta la serata, si forse la prima era più chiara, si capiva subito quel che voleva dire, ma quella del Valsesia era più vera… faceva diventare vive le parole… creava un’emozione. “Signor Valsesia, voglio imparare anch’io a scrivere frasi come questa” dissi mettendomi in tasca il bigliettino che, per me, sarebbe diventato un cimelio.
Il giorno dopo se ne arrivò con un pacco di fogli e due matite. “Per esercitarti” disse, poi proseguì: “Scrivi tutto quello che ti viene in mente, se non ti viene in mente niente, descrivi quello che ti circonda… ricordati, puoi scrivere di tutto e di tutti, ma non dimenticare mai di tenere a mente quella che dovrebbe essere la regola principe per ogni scrittore.”
“Quale?” risposi, anche se forse aveva frainteso. Io non volevo mica diventare uno scrittore, ci mancherebbe altro, con tutte quelle doppie. Gli avevo solo chiesto d’insegnarmi a scrivere qualche bella frase come quella del biglietto. Mi guardò storcendo le labbra, poi disse: “Dovrebbero scrivere tutti, perché ogni uomo è un universo, e non bisognerebbe permettere che un universo scompaia senza che lasci una testimonianza del suo passaggio. Molti invece consentono che una giornata trascorra senza scrivere nulla… cosa resta delle giornate, dei mesi, degli anni, della vita stessa? Lasciano che qualcun altro scriva per loro le solite frasi di circostanza, il loro epitaffio. E perdono l’occasione di raccontare la leggenda della loro vita.” Poi proseguì: “La regola principe è questa. Racconta quello che senza di te non sarebbe mai stato raccontato.”
Riflettei un attimo, forse anche un po’ più di un attimo, ma più o meno avevo capito. Solo una cosa mi rimaneva da chiedere: “Signor Valsesia… Ma che diavolo è un epitaffio?!”

***

Come dicevo, la vita alla taverna scorreva abbastanza tranquillamente, almeno fino a quel fatidico lunedì di aprile, quando arrivarono il signor Alessandro Mirone e la sua giovane moglie. La signora Elena Mirone aveva un viso magnifico; gli occhi nocciola avevano un taglio quasi esotico, mani da pianista e caviglie ben modellate. Il corpo, atletico e snello, metteva in evidenza il suo sano entusiasmo. Portava i capelli biondi sopra le spalle in una di quelle acconciature alla moda ed era vestita elegantemente con uno di quegli abiti che si vedevano solo nel capoluogo.
Il marito aveva i capelli castani, di quelli molto fini, che riportava da un lato all’altro della testa, e occhi azzurri che mettevano in imbarazzo quando ti fissava. I baffi, invece erano rossicci e tagliati appena sopra il labbro. Di statura leggermente superiore alla media, era magro, e indossava una giacca che lo faceva apparire un po’ più robusto.
Quando quel lunedì arrivai alla taverna, loro dovevano avermi preceduto di poco perché c’erano le valigie ancora fuori dalla porta. Ci misi qualche istante a capire che quella gente era lì perché voleva affittare una camera, anche perché era la prima volta che qualcuno chiedeva una camera da quando lavoravo lì.
“Marco, porta su le valigie dei signori” disse Oreste, mentre intratteneva amabilmente i coniugi Mirone. Dico, non erano mica un paio di valige, si erano portati dietro tutta la casa, e quando finii il trasloco ero già stanco prima ancora di iniziare a lavorare.
Ma bastò un solo sorriso della signora Elena Mirone e mi passò ogni stanchezza.
Nonostante il tempo trascorso da quando la vidi per la prima volta, e i cambiamenti e le angosce che quella donna avrebbe portato nella mia vita e in quelle delle persone a me più care nei giorni a venire, non riesco a non pensare a lei con un miscuglio nostalgico di odio e amore.
C'era sembrato strano che una coppia di signori di città si fosse fermata in quel paesino di provincia, e ancor più strano il fatto che avessero scelto la taverna del cervo come loro dimora temporanea, ma Oreste aveva dichiarato in modo ineccepibile che per lui l’importante era che pagassero. E a giudicare da vestiti, gioie, e bagagli, quei due dovevano stare proprio bene.
Il signor Mirone aveva spiegato ad Oreste di essere un antiquario, e che era sua abitudine, una due volte l’anno, girare per le province a cercare quadri, libri, e mobilio antico. La sera, dopo aver sistemato le loro cose, i coniugi Mirone scesero per cena; dico, v’immaginate le facce? Facevano tutti finta di niente e si comportavano in modo naturale, in realtà non gli toglievano gli occhi di dosso. Fui piacevolmente colpito dal fatto che Elena Mirone aveva su di loro lo stesso effetto che aveva avuto su di me. Perfino Beppe Lauro, un ometto anziano, povero in canna, con i denti marci e la barba lunga, si era tolto il cappello e aveva sorriso quando gli era passata vicino quella splendida creatura. E sarebbe stato meglio se non lo avesse fatto -per via dei denti dico- ma restammo tutti sorpresi dal suo slancio, anche perché era uno di quei tipi che tengono sempre le labbra strette, e hanno l’aria di avercela con il mondo. Quando ti parlava sembrava sempre sul punto di mandarti a quel paese, e non era raro durante una discussione, vederlo bestemmiare come un indemoniato.
I coniugi Mirone cenarono conversando garbatamente e apprezzando la cucina di Maria la grossa. Si fecero potare due caffè e un vermut; mentre prima li aveva serviti la Concilio, i caffè e il vermut glieli portai io al tavolo. Cercai di essere il più professionale possibile, ma non resistetti a dare una sbirciatina all’apertura della sua camicetta, che lei, mi guardò incuriosita. Poi, prendendo un portasigarette in argento dalla borsa  mi disse:
“Scusa, potresti portarmi un fiammifero?”
“Certo signora, subito” dissi annuendo e dirigendomi in cucina.
Beh non ci crederete, ma quando tornai con la scatola di fiammiferi, lei stava già fumando e al loro tavolo c’era seduto il signor Valsesia.
Avrei voluto avvicinarmi per capire quel che si dicevano, ma a quell’ora la taverna era piena di gente e bisognava stare dietro alle ordinazioni. Dopo un’oretta approfittai del fatto che vicino al tavolo dei Mirone, si era seduta una comitiva di ragazzi con cui ogni tanto giocavo a carte, e fra un’ordinazione e l’altra mi andavo a sedere a quel tavolo cercando di capire quel che si dicevano il signor Valsesia e i coniugi.
“…sì, siamo stati a Parigi, Vienna, Madrid”, diceva il signor Mirone.
“E qual è la città che più vi ha affascinato?” chiese il Valsesia.
“Ah… Senza dubbio Parigi!”disse la signora Mirone con voce allegra.
Mi dovetti allontanare per portare delle birre ad un tavolo, quando tornai la conversazione stava continuando:
“…certo la sua tecnica cambiò molto negli anni. Mentre nei primi lavori dipinse paesaggi che comprendevano anche figure e oggetti, nei successivi, Monet fu colto dall’idea assillante di mostrare solo ed esclusivamente la natura. Negli ultimi si dedicò al solo tema delle ninfee, dando vita a molti quadri semi-astratti; paesaggi d’acqua e di luci che sono tra le sue opere più belle” stava spiegando il signor Valsesia.
“Non pensavo di trovare un esperto d’arte in un paesino di provincia” commentò il signor Mirone.
“Oh… Non sono un esperto d’arte, sono semplicemente una persona a cui piace leggere” disse il Valsesia, portando le mani avanti come a scusarsi di essere stato scambiato per un esperto.
“Ho avuto una giornata molto dura, e sono stanco” disse il signor Mirone.
“Io, invece avrei piacere di conversare ancora un po’ con il signor Valsesia” disse la moglie. Alessandro Mirone guardò il signor Valsesia e poi disse:
“Se per lei non è troppo disturbo…”
“Assolutamente”, disse il Valsesia con l’aria di un gatto che aveva agguantato un topo per la coda. Avevo come l’impressione che qualcosa mi sfuggiva. Quell’uomo aveva acconsentito a lasciare la moglie nelle mani di un perfetto sconosciuto come se si trattasse di un amico di vecchia data, e senza prendersi la briga di considerare  quello che poteva pensare la gente. Ora la cosa si faceva interessante, aguzzai l’udito:
“Suo marito si fida di lei” disse il Valsesia.
“Sì, si fida molto… Lei è un uomo geloso?” domandò la Mirone, accendendosi un'altra sigaretta.
“Io lo sarei, se avessi una moglie giovane e bella come lei.” Dico, io lo conoscevo bene il signor Valsesia, e sapevo che le cose non le mandava a dire, ma non pensavo fosse così diretto anche con le donne. Io quando l’avevo vista ero diventato estremamente servizievole, Oreste si pavoneggiava e continuava a fissarle la scollatura, perfino Beppe Lauro non aveva resistito alla sua bellezza. Lui no, anzi nel suo modo di parlare, di muoversi, di domandare, riuscivo chiaramente a sentire la sua frase: “Per puro interesse professionale”. Quando mi girai mi accorsi che la signora Mirone stava guardando Valsesia con un’espressione ironica.
“È un complimento, neanche tanto velato il suo… Ma da una persona intelligente come lei lo accetto volentieri” disse Elena Mirone.
Valsesia sbottò in una risata, e la signora Mirone arrossì guardandosi in giro come a voler trovare il motivo di quella risata.
“Marco! Per favore portami una grappa”, disse il Valsesia allungando il collo all’indietro e facendomi l’occhiolino, come se avesse sempre saputo che ero alle sue spalle.
Gli portai la grappa e mi sedetti di nuovo al tavolo. Mandò giù tutto in un fiato, poi si sporse avvicinandosi ad Elena Mirone e facendole segno di avvicinarsi. Erano uno di fronte all’altra, e lei in modo provocante si avvicinò più di quanto avrebbe dovuto.
“Vorrei farle una domanda” disse il Valsesia.
“Quale?” sussurrò Elena Mirone.
“Per quale motivo mi sta adulando?”
Elena Mirone si ritrasse e guardò Valsesia con un sorriso sorpreso, ma lui proseguì: “Vedi, Elena, vediamo come posso chiarirti la situazione… Tuo marito è un antiquario giusto?”
“Sì.”
“Allora, immagino che ogni tanto gli sia capitato che qualcuno cerchi di rifilargli un falso, giusto?”
“Sì, più di una volta” rispose la donna, che ormai aveva un’espressione accigliata e infastidita.
“Bene, per me è lo stesso, con il mio lavoro riesco a distinguere la differenza che c’è  fra una persona e un personaggio, e tu e tuo marito non siete altro che personaggi di una farsa. Anche se non ho ancora ben capito di quale farsa si tratti!”
Elena Mirone scattò in piedi: “Ma come si permette! Lei è matto! Ci eravamo sbagliati sul suo conto!” disse adirata, allontanandosi verso il piano superiore.
Oreste aveva seguito le ultime fasi della discussione, asciugando i bicchieri per la birra, e lanciando occhiate preoccupate verso di noi. Rimasi sorpreso, ma come si fa a trattare in modo così sgarbato una donna come Elena Mirone?
“Signor Valsesia, ma perché avete trattato così la signora Mirone?” chiesi dispiaciuto.
“Penso di non sbagliarmi Marco… No, penso proprio di non sbagliarmi” rispose lui prendendo le sue cose e andando verso l’uscita.
Lo sentii dire ancora qualcosa quando passò vicino al bancone:
“Oreste… Occhio, a quei due!”

***

Il giorno seguente notai che la Concilio si era sistemata nello stanzino che c’era vicino alla cucina. Normalmente era Oreste che adoperava quella camera per fare un riposino subito dopo pranzo, ma evidentemente, con il fatto che c’erano i Mirone, la Concilio aveva ritenuto conveniente dormire lì per preparare la colazione o cose del genere. Iniziai come al solito a lucidare per bene il bancone, e a spazzare la pedana, dopo aver rigorosamente bagnato a terra, mettendo il pollice sulla bocca della bottiglia e facendo uscire l’acqua a piccoli spruzzi: proprio come mi aveva spiegato la Concilio. All’improvviso sentii qualcuno che bussava al bancone. Mi rigirai per capire da dove venisse quel rumore, poi la vidi.
“Cristo santo! Silvia!” dissi, mentre lei si sollevava dalla zona in cui si era rannicchiata.
“Ciao, Marco… come va? Non ti piacciono gli scherzi? Con mio fratello fate in continuazione di queste cretinate” disse Silvia, appoggiandosi al bancone.
“A proposito, è un po’ che non vedo Mario.”
“Sì, sta aiutando mio padre a fare dei lavori a casa, sai c’è da rifare il tetto. Quest’inverno avevamo la casa piena di secchi e bacinelle, non si riusciva a dormire la notte, quel plinch… plinch… plinch, ti entrava nel cervello, per non parlare dell’umidità” rispose prendendo una ciocca di capelli e spostandola dietro un orecchio. Poi continuò dicendo:
“Senti… Ma cosa è successo ieri sera fra il signor Valsesia e la nuova arrivata?”
“Giuro, non l’ho proprio capito. Fin quando c’è stato il signor Mirone hanno parlato amichevolmente, ma poi appena sono rimasti loro due… pare che Valsesia abbia accusato sia lei che il marito di essere dei personaggi di una farsa, o una cosa del genere. Ad ogni modo, la signora Mirone si è alzata ed è andata via dandogli del matto.”
“Fiiuuu…” Silvia usava i fischi, come io usavo i cristo santo, le madonne e compagnia bella.
“E questa sera, cosa succederà? Lei sicuramente avrà detto tutto al marito; forse il signor Valsesia questa sera non verrà” disse Silvia avvicinandosi e appoggiando una mano sul mio braccio. La consapevolezza del contatto fisico con Silvia mi diede una strana sensazione, una piacevole sensazione.
“È vent’anni che Vincenzo Valsesia viene ogni sera, non penso proprio che mancherà a questa. Ma se fossi in te, non mi preoccuperei per lui, sa come difendersi.”
Silvia si mosse lentamente mi afferrò anche l’altro braccio e guardandomi dritto negli occhi, con uno sguardo indagatore mi disse:
“Lo so!”
Mi osservò ancora qualche momento, poi mi lasciò e dopo aver fatto uno strano movimento con le sopracciglia se ne andò in cucina ad aiutare la madre. La seguii con lo sguardo fino a quando non scomparve alla mia vista. Era magra, ma aveva un modo di sculettare maledettamente attraente.
“È molto graziosa, vero?”
Quando mi girai mi accorsi che Elena Mirone mi stava osservando con un sorriso traverso.
“Buongiorno, signora…” dissi impacciato -da quanto tempo era lì?-
“Chiamami Elena, signora mi fa sentire vecchia. Come ti chiami? Quanti anni hai?”
Voi non ci crederete, ma mi sudavano le mani e le budella mi si attorcigliavano.
“Mi… Mi chiamo Marco Cravera sign… Elena, e ho… Ho quindici anni.” Santa madonna! Come invidiavo il signor Valsesia! Mi dimenticavo le parole, e stavo facendo la figura del pivello.
“Senti caldo?” Non l’avesse mai detto, iniziai a sudare copiosamente.
“Senta signora devo finire i lavori”, dissi attingendo a tutto il mio sangue freddo.
“Oh, ma avrai due minuti per scambiare qualche parola no? Sai, pensavo che tutto sommato ho solo cinque anni più di te… Mentre con mio marito la differenza e di più di vent’anni” disse, facendo una smorfia bambinesca.
Ora capivo la reazione del Valsesia, ma dove voleva andare a parare? Mi stava dicendo che fra me e lei poteva succedere qualcosa? Non ci capivo un accidente. Ma era bella, bella, bella…
“Quel signor Vincenzo Valsesia lo conosci bene?” disse cambiando tono e abbassando la voce.
“Sì, è un mio amico.”
“Che strani amici hai; uno che di punto in bianco accusa le persone senza motivo” proseguì la Mirone, appoggiandosi al bancone. In quel momento arrivò Oreste, con in mano delle borse della spesa. Salutò e mi diede le borse da dare a Maria la grossa.
Quando tornai al bancone vidi la signora Mirone e Oreste sull’uscio della porta che dava sul giardino. Oreste parlava e sorrideva; poi successe qualcosa di strano, qualcosa che durò un attimo ma che mi fece provare un sentimento di rabbia e d'invidia nei suoi confronti.
Eppure avevo visto bene: mentre gli parlava, Elena Mirone aveva cominciato ad accarezzare con noncuranza il braccio muscoloso di Oreste, ma che cavolo aveva in testa di combinare quella ragazza? Possibile che fosse così spregiudicata? Oppure ero io che non conoscevo le usanze di città? Rimasi lì imbambolato per qualche secondo poi mi diressi verso la cucina per non dare nell’occhio. Quando attraversai il corridoio che portava alle camere notai qualcosa di strano, ma non compresi subito di cosa si trattava. Tornai indietro nel corridoio e mi fermai un attimo a cercare quel particolare che mi sfuggiva. La porta della camera dei Mirone era socchiusa, e vi era qualcuno che stava osservando quel che stava succedendo al piano terra. Mi tolsi le scarpe e salii le scale veloce ma silenzioso come un gatto, stando attento a tenermi ben appiccicato al muro per non essere notato. Mi avvicinai il più possibile alla camera, fin quando mi resi conto che da uno specchio appeso nel corridoio di fronte alla porta socchiusa si rifletteva chiaramente la persona che spiava da dietro. Alessandro Mirone stava osservando Elena e Oreste; ma quel che più mi scombinò fu l’espressione soddisfatta e divertita di quell’uomo.
Nel pomeriggio notai qualcos’altro che mi dette da pensare; il signor Mirone si stava intrattenendo fuori della taverna con due tipi che non avevo mai visto prima. Stavano parlando in modo concitato ma sotto voce, come se stessero parlando di qualcosa di estremamente importante. Quegli uomini erano vestiti in modo elegante ma le loro facce e gli atteggiamenti facevano a pugni con quei bei vestiti.
No, qualcosa nel comportamento di quei due non tornava, il Valsesia ci aveva visto giusto. Dovevo andare a dirgli quel che stava succedendo, e a scusarmi di aver dubitato di lui.

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